A quasi dieci giorni dal termine delle Olimpiadi, le imprese degli atleti italiani risuonano ancora in maniera importante. Il giornalista gualdese Manuel Codignoni, che ha seguito questo evento con Radio Rai 1, ci ha lasciato un sunto di come lui ha vissuto queste due settimane intense e che di sicuro non dimenticherà mai.
Ecco il suo racconto.
Una provetta di plastica. Un microimbuto. Una cabina chiusa su tre lati per garantire un minimo di privacy. E istruzioni in una lingua incomprensibile ma con dei disegnini inequivocabili.
Ci accolgono così, all’aeroporto di Tokyo, dopo 12 ore e mezzo di volo passate in un aereo semivuoto. Con una miriade di controlli verifiche, documenti da compilare, consegnare, scritti -di nuovo- in un idioma da crisi isterica. E poi il momento clou. Il tampone salivare. Che detta così suona molto più elegante di quello che è in realtà. E che sarà una costante della nostra quarantena nipponica.
Dodici ore di volo, dicevo, quindi a seguire quattro ore in aeroporto per passare la serie infinita di verifiche necessarie all’ingresso in territorio giapponese. Agilmente. Guidati da gentilissimi volontari che sorridono, parlano, parlano, sorridono… ma senza essere della minima utilità, dato che l’inglese per la maggior parte di loro è esattamente come il giapponese per noi: simboli e suoni divertenti ma senza senso alcuno.
Sono le olimpiadi ai tempi della pandemia, baby. Quelle che a conti fatti nessuno o quasi voleva più fare, in Giappone, ma che nessuno poteva permettersi di cancellare. E dunque buon viso a cattivo gioco, nel senso più letterale del termine. Ci sentiamo ospiti non del tutto desiderati, soprattutto all’inizio, ma sempre accolti col sorriso, con l’educazione, con la gentilezza tipici di queste persone. Lo senti a pelle che non gli piace quest’invasione, ma non te lo dimostreranno mai esplicitamente.
Quattordici giorni di quarantena – praticamente, per chi come me è decollato il 21 luglio da Roma per arrivare il 22 a Tokyo, quasi l’intera permanenza. Quarantena che vuol dire: nessuno spostamento al di fuori dell’asse Hotel-IBC [International Broadcast Center]-Campi di gara. Nemmeno una passeggiata, una corsetta, una cena al ristorante. Lo spietato playbook vomita ordini e istruzioni che manco il sergente Hartman in Full Metal Jacket. “Tutte le mattine dovrete misurarvi la febbre e inserirla nel database. Tamponi salivari [aridaje!] per i primi quattro giorni e poi uno ogni tre giorni”. Con l’angolo di consegna provette ribattezzato con apprezzabile arguzia Sputify, e qui mi fermo. “Sarete controllati col GPS dei vostri cellulari -prosegue- avrete un quarto d’ora di tempo massimo per andare al minimarket a prendervi qualcosa da mangiare, e se sarete beccati a trasgredire potremo ritirarvi l’accredito e il popolo giapponese [sic!] sarà pronto a umiliarvi sui social”. Sì, proprio così.
Sarà un’olimpiade diversa, mi dicevano i veterani, quelli che hanno già annusato il profumo dello spirito dei cinque cerchi. Peccato -il ritornello riservato alle pochissime matricole come il sottoscritto- che esordirai in un contesto triste, brutto, grigio. Vero? Vero NIENTE.
Per una valanga di motivi. Perché è stata l’olimpiade delle quaranta medaglie. Dei dieci ori, cinque nell’atletica. Di Jacobs, Tamberi, di Vanessa Ferrari, di Federica Pellegrini, di Pippo Ganna. Di eroi famosi o fino a ieri misconosciuti. Dell’orgoglio azzurro tout court, dell’onda lunga dell’Europeo di calcio, degli ori che prima tardano ad arrivare poi piovono a valanga, in un gioco d’inerzie tipico dello sport che di razionale ha nulla o quasi ma che funziona sempre.
Io c’ero, allo stadio Olimpico di Tokyo, quando Gimbo e Marcell hanno dato vita alla serata più importante della storia della nostra atletica. E li ho intervistati, a caldo, ho raccolto la loro gioia, la loro commozione, i loro occhi lucidi. Li ho visti abbracciarsi come ragazzini, più flemmatico Marcell, più esagitato Gimbo, con in mano il gesso memoria dell’infortunio che gli ha negato Rio 2016.
E c’ero al velodromo di Izu, il maledetto velodromo di Izu, che sta più in là del monte Fuji -mai visto in quasi dieci viaggi da quelle parti, maledette nubi basse!- e che per andare e tornare da Tokyo son 7 ore di viaggio. Sette ore attraversando la campagna giapponese magari -storia vera- per raccontare una gara che dura poco più di tre minuti e mezzo. 3’42’023, per la precisione. Quel giorno che Pippo Ganna decise di gettare la maschera, di mostrare al mondo intero che no, lui di umano aveva ben poco. E lo ha fatto nella terra dei supereroi, di Gundam, Ufo Robot, Mazinga. Anzi, di Galaxy Express, il treno intergalattico, ve lo ricordate? Un ultimo km ad una velocità senza senso a demolire i danesi e a regalarci un oro, nell’inseguimento a squadre, che ci mancava dal 1960. E a togliere del tutto la voce al sottoscritto. 1960-2021. Sessantun anni. Ganna, Milan, Consonni, Lamon. Meglio dei cavalieri dello Zodiaco. E con loro Elia Viviani, che sempre sotto gli occhi di chi scrive si è preso il bronzo nell’omnium dopo due anni in cui non gliene era andata dritta una, con tanto di operazione al cuore a inizio anno. L’inno. La mano sul cuore. Lacrime trattenute a stento. Di gioia e commozione. Ovviamente da parte mia, ça va sans dire.
Olimpiade vuol dire sport, vuol dire amicizia, vuol dire battaglia sportiva, lealtà, ma anche curiosità e scoperta. Curiosità nell’approcciarsi a sport che non conosci. Sollevamento pesi [una piacevole sorpresa], basket 3×3, Beach Volley, BMX. Non si finisce mai di imparare. Non si deve MAI smettere. Per potersi e poter entusiasmare.
E curiosità anche nel guardare fuori dal finestrino, durante gli infiniti trasferimenti, per a cogliere qualcosa del posto che ti ospita. Difficile, vista la rigida bolla, ma non impossibile. Perché se alzi lo sguardo dal cellulare e aguzzi la vista oltre il vetro, vedi la Tokyo Tower, vedi il Rainbow Bridge che pare il ponte di Brooklyn ma sta in Giappone. Vedi la baia di Tokyo, col mare quasi mai increspato che sembra finto incastonato fra isolotti ipermoderni. Vedi grattacieli, sopraelevate e scie luminose che sembrano uscite da Blade Runner, mancano solo le macchine volanti. Ma passi anche da Shinjiku, con le sue vetrine colorate che provano ad esibire con eleganza -ed esiti deludenti- promesse di svago ed happy ending prosaicamente reali che di poetico hanno ben poco. E poi c’è Akihabara, che non è un quartiere ma un immenso manga a cielo aperto, tra giocherie, negozi di fumetti, cosplayer e gigantografie di supereroi sconosciuti e coloratissimi che si arrampicano su grattacieli di cui non vedi la fine.
Olimpiade è vivere 24/24 immersi in un microcosmo a metà tra colonia estiva e colonia penale. Le folli giornate di lavoro che sai quando inizi ma non quando finisci – e sempre in ogni caso quando il sole è già tramontato. L’amicizia coi colleghi che si cementa giorno dopo giorno, la complicità, la gioia della birra clandestina a fine serata nel giardinetto nascosto dietro il piazzale a forma di tartaruga che però “occhio, arriva la guardia, disperdiamoci!”, che d’un tratto tutti torniamo tutti quindicenni. Il caldo afoso che ti toglie il respiro, l’aria condizionata che se non ti metti la sciarpa ti leva la voce, il profumo di riso pollo e curry riscaldato ai Family Mart [i minimarket sempre aperti dove in un quarto d’ora devi saperti giocar bene le tue carte]. I sorrisi dei volontari che non capiscono un accidente di quello che gli chiedi ma ti dicono sempre sì. Te ne rendi conto solo dopo dieci giorni, che è completamente inutile sperare di avere informazioni da loro. Eppure continui a farlo. Perché è giusto così, e non ti arrabbi nemmeno più per la frustrazione, anzi sorridi di rimando, li saluti in italiano -tanto fa lo stesso- e accenni un inchino che li fa ancora più felici. E poi l’ultima sera al Karaoke, la feroce contrattazione -a gesti, ovviamente- per strappare un prezzo accettabile e poi tutti a squarciagola a urlare [perché cantare è un’altra cosa] sulle note di “Che sarà” e “My Way”.
Istantanee. Ricordi. Schegge. Ripensandoci, a mente fredda, è esattamente il contrario di quello che m’avevano detto certi soloni del “io manco ci volevo venire, questa volta sarà una merda”. Se c’è un’Olimpiade della quale racconterò ai miei nipotini, sarà proprio Tokyo 2020 [nel 2021]. E non perché è stata la prima [e spero non l’ultima]. Ma perché se ne parlerà ancora fra mille anni. Ed è stato un onore, un privilegio, una fortuna pazzesca poterci essere. Poter dire “io c’ero”, come ho scritto sopra. E poter condividere istantanee a caso di quei folli, meravigliosi 20 giorni.